venerdì 2 marzo 2012

La 'pubblicità ingannevole' nel dibattito sull'art.18 dello Statuto dei lavoratori.

Nella società dello spettacolo, la pubblicità rappresenta l’unica forma di verità” (Guy Debord).
E' apparso doveroso ricorrere alla famosa frase del filosofo situazionista francese, per compiere una breve riflessione su ciò che sta caratterizzando il dibattito italiano sull'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, sul quale non appare esagerato dire che si sta attuando un vero e proprio caso di 'pubblicità ingannevole' a danno dei cittadini/consumatori.
Chi scrive, giova precisarlo, ha una posizione, come si direbbe, ‘aperta’ sulla questione, sulla quale intende però comprenderne i reali termini di discussione.
Un primo elemento di confusione è che, nella maggior parte degli articoli giornalistici ma anche delle interviste a soggetti più ‘qualificati’, si parla dell'art. 18 come dell’articolo sulla ‘giusta causa’ del licenziamento...Verità del tutto parziale, in quanto l'articolo parla di ben 3 modalità di licenziamento, di cui solo una è definita ‘giusta causa’ (quella più grave, che giustifica il licenziamento ‘in tronco’ del lavoratore per gravi azioni commesse dallo stesso), mentre le altre due fanno riferimento a più blandi casi di 'giustificato motivo', di natura soggettiva (per azioni commesse dal lavoratore meno gravi del primo caso) o di natura oggettiva (per motivi economico/organizzativi dell'azienda). Quindi è sempre bene ricordare che, quando si parla indistintamente di ‘art.18’, si parla sempre di tre forme di licenziamento, molto diverse tra loro per gravità e presupposti.
Inoltre, l’art. 18 viene richiamato (da illustrissimi protagonisti del dibattito, come il Prof. Pietro Ichino e la presidente di Confindustria Emma Marcegaglia) anche nei casi di ‘licenziamento discriminatoro’, per il quale, tutti dichiarano, la tutela del 18 ‘sarà mantenuta’... Peccato però che i casi di licenziamento discriminatorio non hanno affatto bisogno della tutela dell’art.18, atteso che tali licenziamenti sono radicalmente nulli per contrarietà a norme di Legge, la cui illegittimità esula pertanto dai motivi e dai limiti dell’applicazione dell’articolo dello Statuto... Un altro clamoroso caso, quindi, di ‘pubblicità ingannevole’ nell’impostazione del dibattito.
Altra clamorosa ‘bufala’, è quella per la quale la modifica dell'art. 18 “la pretenderebbe l'Unione Europea”. Anche in questo caso, si gioca artatamente sui diversi significati dell’art.18, e non si specifica che l'U.E. ha effettivamente chiesto quali strumenti l’Italia intendesse adottare per modificare i “licenziamenti per motivi economici” (lettera del novembre 2011 del commissario europeo Ollin Rehn, punti 17-21 del questionario allegato)... Anche in questo caso, dunque, è evidente che la questione sia relativa solo ad uno (licenziamento per giustificato motivo oggettivo) dei tre casi previsti dall'articolo: ma allora perché si parla sempre della modifica, quando non dell’abolizione, dell’art. 18 tutto intero, senza fare alcuna distinzione tra le sue diverse accezioni?
Altra forma di ‘pubblicità scorretta’ è poi quella relativa alla vulgata per la quale la tutela reale non esisterebbe in altri paesi dell'Europa... Che esista pacificamente in paesi come la Francia e la Germania, in Slovenia e nella Repubblica Ceca, appare argomento sufficiente per porre nel nulla questa vera e propria falsa notizia, peraltro di per sé non certo dirimente della questione (anche qualora fossimo gli unici ad avere tale tipo di tutela)?
Se poi passassimo alle motivazioni, diciamo così, ‘economiche’ poste alla base di un possibile intervento di modifica, secondo le quali la presenza dell’art.18 osterebbe ad una maggiore offerta di lavoro da parte delle aziende, sono state anch’esse recisamente sconfessate dal sondaggio Unioncamere - Excelsior del dicembre 2011 (consultabile sul sito Unioncamere.it), in cui è emerso come a malapena l’1% dei centomila imprenditori intervistati ha addotto ‘altri motivi’ di mancata crescita, tra cui potrebbe figurare anche l’applicazione dell’art.18. Al contrario, è emerso invece che il tasso maggiore di assunzione avviene sempre nelle aziende con più di 15 dipendenti, e quindi lì dove viene applicata la tutela dell’articolo incriminato...
Così come, ultimo argomento apparentemente ‘tecnico’ ma del tutto inverificabile, è quello secondo il quale, con la modifica dell’art.18, si avrebbe una tutela più ‘equilibrata’ tra i lavoratori c.d. ‘precari’ (‘poco tutelati’) e quelli con contratti ‘stabili’ (‘troppo tutelati’)… Anche in questo caso, oltre ad un’ennesima valutazione non analitica dei molteplici aspetti dell’articolo, si assiste ad un argomento non solo generico e non verificabile, ma ad un vero e proprio indimostrato ‘assunto’ ideologico, oltre che, lo si permetta, ad un odioso ed irresponsabile fomentare di uno scontro tra categorie di lavoratori di cui, in questi tempi, se ne farebbe volentieri a meno…
La ‘pubblicità ingannevole’ viene rigidamente sanzionata come pratica illegittima all’interno di un sistema di mercato, non tanto per motivi relativi alla ‘correttezza’ o meno di un comportamento contrattuale (principio generale valido in ogni rapporto commerciale), ma soprattutto in quanto è in grado di condizionare – su larga scala - la libera determinazione, e quindi la volontà, nelle scelte economiche dei soggetti destinatari di tale pratica.
Se, all’interno di un importante dibattito economico, culturale e politico, le informazioni che vengono diffuse alla cittadinanza hanno la caratteristica di essere imprecise, parziali, lì dove non palesemente false, lo stesso dibattito sarà falsato, fondandosi su elementi non corrispondenti al vero, come di conseguenza falsate saranno la libera determinazione ed il libero convincimento dei cittadini.
Se si ripulisse, dunque, l’importante dibattito sull’art. 18 dello Statuto dei lavoratori di tutte le ‘imprecisioni’, diciamo così, sopra descritte, si è certi che si compirebbe un importante passo in direzione della necessaria trasparenza per una corretta e consapevole formazione dell’opinione pubblica.
Ma forse il punto è proprio questo: siamo sicuri che tutti ne siano interessati?
Avv. Antonello Polito

martedì 7 febbraio 2012

Dal Cresci-Italia... al Cresci-Microimpresa?

Nel recente dibattito giuridico inerente l'evoluzione delle tipologie contrattuali, si parla da un po' di tempo del c.d. 'terzo contratto'.
Tale e' infatti la definizione che, da parte di certa dottrina, viene data ad un contratto stipulato non tra imprenditori o tra privati (primo contratto: quello tra soggetti di eguale 'rango' giuridico), non tra un professionista ed un consumatore (secondo contratto: quello tra soggetti con finalità - e forza - commerciali differenti), bensì tra un grande imprenditore ed una impresa individuale, o familiare.
La dottrina, in questi casi, ha elaborato motivi e strumenti di interpretazione e tutela che a volte alcune coraggiose ma isolate Corti di merito hanno sostenuto (ricordiamo che il Giudice di Pace di Sanremo, nel 1999, sollevo' persino la questione di costituzionalità dell' ex art. 1469-bis del Codice civile proprio in virtù di tale mancata estensione...).
E' dunque da salutare certamente con favore e curiosità l'inserimento previsto all'art.7 del Dl 1/2012 di due modifiche al Codice del consumo che estendono le tutele previste per il consumatore anche alle microimprese.
L'art.18 del Codice del consumo, infatti, dedicato alle 'definizioni', viene arricchito, al primo comma, di una lettera 'd-bis' che definisce proprio le microimprese, identificate come quelle "entità, società di persone o associazioni, che, a prescindere dalla forma giuridica esercitano un'attivita economica artigianale e altre attività a titolo individuale o familiare".
Di conseguenza, viene integrata anche la disciplina prevista dall'articolo successivo, il 19, nel quale viene esteso l'"ambito di applicazione" del titolo III della parte seconda del Codice anche "alle pratiche commerciali scorrette tra professionisti e microimprese".
Viene tuttavia specificato che, per le microimprese, "la tutela in materia di pubblicità ingannevole e di pubblicità comparativa illecita, e' assicurata in via esclusiva dal decreto legislativo 2 agosto 2007, n. 145".
Posto che dovremo verificare la persistenza di tale importante integrazione al Codice del consumo all'esito della conversione in legge del decreto, sperando nel suo mantenimento, tale integrazione sembra essere destinata a rivoluzionare non poco il contenzioso del consumo, soprattutto nei contratti di servizio.
Si immagini solamente, a mo' di esempio, alla sua applicazione nei rapporti commerciali di prestazione di servizi (telefonici, di energia) tra le grandi imprese ed i singoli professionisti.
Una piccola, grande rivoluzione che dunque svilupperà e renderà ancora più utilizzabili gli strumenti di tutela posti originariamente ad esclusiva difesa dei soggetti più deboli, che oggi tendono ad estendere la loro influenza giuridica ed economica.   

martedì 10 gennaio 2012

Le indicazioni dell'Autorità Antitrust a tutela dei consumatori: richiesta di multe fino a 5 milioni di euro!

Riprendiamo qui di sèguito la parte delle 'proposte di riforma' inerenti la tutela diretta dei consumatori, presentate al governo dall'Autorità posta a tutela della Concorrenza il 5 gennaio scorso, di cui ne sottolineiamo gli aspetti più importanti:

TUTELA DEL CONSUMATORE E PUBBLICITÀ INGANNEVOLE
La disciplina in materia di pratiche commerciali scorrette e di pubblicità ingannevole e comparativa illecita costituisce lo strumento attraverso il quale l’Autorità persegue i comportamenti delle imprese idonei a falsare le scelte economiche dei consumatori, ovvero la diffusione di comunicazioni commerciali e pubblicitarie ingannevoli, suscettibili di ledere imprese concorrenti. In entrambi i casi, inoltre, tali comportamenti possono alterare in misura apprezzabile il corretto svolgimento della concorrenza nei mercati interessati. Soprattutto in relazione agli illeciti di maggiore gravità e durata, l’esperienza applicativa ha dimostrato l’inadeguatezza, in termini di deterrenza e proporzionalità delle sanzioni, dei limiti edittali massimi di 500.000,00 euro e 150.000,00 euro, attualmente previsti, rispettivamente, in caso di violazione dei divieti normativi in materia di pratiche commerciali scorrette e pubblicità ingannevole e comparativa illecita e in caso di inottemperanza ai provvedimenti inibitori dell’Autorità.  Si propone pertanto di aumentare a 5.000.000,00 (cinquemilioni) euro il limite edittale massimo delle sanzioni previste dall’art. 27, commi 9 e 12, del D.Lgs. n. 206/2005 (Codice del Consumo) e dall’art. 8, commi 9 e 12, del D.Lgs. n. 145/2007 (pubblicità ingannevole).

Inoltre, al fine di rafforzare, nell’attuale fase di crisi economica, gli strumenti di tutela a favore delle imprese di minori dimensioni – che rappresentano il tratto caratterizzante della struttura produttiva del Paese – le tutele previste dal Codice del Consumo a favore dei soli consumatori persone fisiche, potrebbero essere estese anche alle microimprese (imprese con meno di 10 dipendenti e un fatturato annuo inferiore ai 2 milioni di euro). Ciò implicherebbe, in particolare, la possibilità per l’Autorità di intervenire anche nei confronti di condotte ingannevoli e/o aggressive poste in essere a danno di microimprese, a prescindere dall’esistenza di un qualunque messaggio pubblicitario. La pubblicità ingannevole suscettibile di incidere pregiudizievolmente solo sugli interessi delle microimprese continuerebbe ad essere disciplinata in via esclusiva dalle disposizioni del D.Lgs. n. 145/2007.  Si propone pertanto di: (a) modificare l’art. 18 del Codice del Consumo (D.Lgs. n. 206/2005) introducendo la nozione di microimprese, come definita nella Raccomandazione della Commissione Europea 2003/361/CE del 6 maggio 2003; (b) modificare l’art. 19 del Codice del Consumo, al fine di estendere l’ambito di applicazione delle relative disposizioni alle pratiche commerciali scorrette tra professionisti e microimprese, nonché di precisare che la tutela delle microimprese nei confronti della pubblicità ingannevole e della pubblicità comparativa illecita è assicurata in via esclusiva dal D.Lgs. n. 145/2007.  

venerdì 16 dicembre 2011

Garante Privacy: provvedimento sulle telefonate 'mute'

Si riprende dal sito del Garante:

Telemarketing: stop alle telefonate "mute"Il Garante prescrive ad una società energetica misure per garantire tranquillità a utenti e consumatori
Il Garante privacy è intervenuto sul fenomeno delle cosiddette telefonate "mute", quelle cioè nelle quali il destinatario, dopo aver sollevato il ricevitore, non viene messo in comunicazione con alcun interlocutore. Sempre più numerosi sono gli abbonati che si rivolgono all'Autorità per segnalare la ricezione ripetuta e continua, a volte anche per 10-15 volte di seguito, di chiamate di questo tipo.
Il fenomeno nasce dall'uso da parte delle aziende di sistemi di instradamento automatico di telefonate allo scopo di porre in comunicazione gli utenti contattati con i call center addetti alla promozione di servizi e prodotti di quelle stesse aziende. Questi sistemi se impropriamente utilizzati possono provocare gravi disagi agli utenti.
E' quanto accaduto con una grande società energetica, la prima ad essere finita nel mirino del Garante. Il sistema utilizzato dalla società prevedeva infatti la possibilità dell'inoltro ai vari call center di un numero di telefonate anche molto superiore alla capacità ricettiva degli operatori. Questo al fine di evitare tempi morti o inattività. La conseguenza però era che non per tutte le chiamate c'era sempre un operatore disponibile. Chi rispondeva si trovava dunque di fronte ad una telefonata "muta" che, soprattutto se ripetuta, provocava negli utenti fastidi e anche allarme.
L'Autorità ha dunque prescritto una serie di misure per evitare di insidiare la tranquillità di utenti e consumatori. E' necessario infatti che chi si dota di sistemi di chiamata di questo tipo utilizzi accorgimenti che impediscano la reiterazione di una telefonata "muta" ed escludano la possibilità di chiamare quel numero per almeno trenta giorni.
In caso di mancato adempimento alle misure prescritte la società rischia una sanzione amministrativa che va da 30mila a 120mila euro.
Roma, 15 dicembre 2011

venerdì 9 dicembre 2011

I primi limiti al telemarketing (per i clienti professionisti)

Dall'ultima Newsletter del Garante della Privacy (provvedimento al link):

L'offerta commerciale deve essere strettamente funzionale all'attività del professionista.
I dati contenuti negli albi professionali possono essere utilizzati per telefonate commerciali solo se il promotore ha già acquisito il consenso dell'interessato o se presenta offerte strettamente attinenti l'attività svolta dal professionista contattato. Lo ha chiarito il Garante privacy che ha vietato ad una società di utilizzare per scopi promozionali i dati personali di un avvocato che si era lamentato di essere stato disturbato in ufficio con offerte di servizi di telefonia destinati all'utenza business.
Nella richiesta all'Autorità, il legale evidenziava come la presenza dei propri dati personali e, quindi, anche del proprio recapito telefonico nell'albo degli avvocati, anche in versione on line, costituisse un obbligo di legge e non implicasse alcun consenso a ricevere telefonate promozionali. Al fine di non essere più disturbato, l'utente si era anche iscritto nel Registro pubblico delle opposizioni. La società si è difesa affermando che i servizi di telefonia business proposti riguardavano l'attività professionale dell'utente e che si trattava pertanto di un utilizzo perfettamente lecito di dati estratti da un albo professionale on line consultabile da chiunque. Dai riscontri del Garante è invece emerso che l'offerta commerciale era generica e non "direttamente funzionale" alla professione forense, non giustificando così l'eventuale esonero dall'acquisizione del consenso.

mercoledì 7 dicembre 2011

AGCOM: Chiarimenti interpretativi sulla normativa in materia di diffusione sui servizi di media audiovisivi di film vietati ai minori di anni 18 e 14.

Importanti chiarimenti dell'AGCOM sull'interpretazione della normativa sui servizi televisivi a tutela dei minori: continuiamo ad interessarci a questa delicata materia...
Riprendiamo dalla documentazione ufficiale AGCOM.


La Commissione per i servizi e i prodotti dell’Autorità, nella riunione del 17 novembre 2011, ha apportato alcune integrazioni ai chiarimenti interpretativi sulla normativa in materia di diffusione sui servizi di media audiovisivi di film vietati ai minori di anni 18 e 14, di cui al precedente comunicato del 22 luglio 2011. Di seguito si pubblica il testo aggiornato.

L’Autorità ha riscontrato l’esistenza di divergenze interpretative delle disposizioni legislative contenute nel Testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici che disciplinano la diffusione dei film cinematografici classificati come vietati ai minori.
Al fine della uniformità di comportamento da parte dei soggetti interessati, si ritiene, pertanto, opportuno esplicitare i criteri cui l’Autorità informa la propria attività di vigilanza in materia.

1. IL DETTATO NORMATIVO IN MATERIA DI DIFFUSIONE DEI FILM VIETATI.
La normativa nazionale in materia è recata dall’articolo 34 (disposizioni a tutela dei minori), del Decreto legislativo 31 luglio 2005, n.177 (Testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici) nel testo novellato dal Decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 44.
Il primo comma contiene una norma di portata generale che vieta “le trasmissioni che, anche in relazione all’orario di diffusione, possono nuocere gravemente allo sviluppo fisico, psichico o morale dei minori o che presentano scene di violenza gratuita o insistita o efferata ovvero pornografiche, salve le norme speciali per le trasmissioni ad accesso condizionato, che comunque impongano l’adozione di un sistema di controllo specifico e selettivo che vincoli all’introduzione del sistema di protezione tutti i contenuti di cui al comma 3” .
In altri termini, per i programmi ad accesso condizionato il divieto di cui al comma 1 non è assoluto: la legge nazionale demanda ad una specifica regolamentazione la determinazione di condizioni, vincoli, modalità e misure tecniche che ne rendano impossibile la visione da parte dei minori. L’elemento indefettibile posto dalla legge a garanzia dei minori, che assicura l’efficacia della loro tutela, è l’esistenza di un blocco da rimuovere per la visione dei programmi gravemente lesivi per i minori stessi:il contenuto classificabile a visione non libera di cui al comma 1 è offerto con una funzione di controllo parentale che inibisce l'accesso al contenuto stesso, salva la possibilità per l'utente di disattivare la predetta funzione tramite la digitazione di uno specifico codice segreto che ne renda possibile la visione” (comma 5, lett. a).
Il secondo comma dell’articolo in esame vieta i programmi che possono nuocere allo sviluppo fisico, mentale o morale dei minorenni, a meno che la scelta dell'ora di trasmissione o qualsiasi altro accorgimento tecnico escludano che i minorenni che si trovano nell'area di diffusione assistano normalmente a tali programmi.
Il successivo comma 3 del citato articolo 34, disciplina la messa in onda, anche a pagamento, dei film ai quali sia stato negato il nulla osta per la proiezione o la rappresentazione in pubblico o che siano stati vietati ai minori di anni diciotto nonché dei programmi classificabili a visione per soli adulti, ivi compresi quelli forniti a richiesta, e ne vieta su tutte le piattaforme la trasmissione dalle ore 7,00 alle ore 23,00, "fermi il rispetto delle norme a tutela dei minori e di quanto previsto dai commi 1 e 2 del presente articolo...", in questo modo consentendo, nella fascia oraria dalle ore 23,00 alle 7,00, le trasmissioni ad accesso condizionato con parental control.
Il comma 4 regola, poi, i film vietati ai minori di anni quattordici e stabilisce che non possono essere trasmessi, sia in chiaro che a pagamento, ne' forniti a richiesta, sia integralmente che parzialmente, prima delle ore 22,30 e dopo le ore 7,00.
Infine, il comma 5, stabilisce che l’Autorità , al fine di garantire un adeguato livello di tutela della dignità umana e dello sviluppo fisico, psichico e morale dei minori, adotta, con procedure di co-regolamentazione, la disciplina di dettaglio contenente l’indicazione degli accorgimenti tecnicamente realizzabili idonei ad escludere che i minori vedano o ascoltino normalmente i programmi di cui al comma 3, fra cui l’uso di numeri di identificazione personale e sistemi di filtraggio o di identificazione, nel rispetto dei seguenti criteri generali: 
a) il contenuto classificabile a visione non libera sulla base del sistema di classificazione di cui al comma 1 è offerto con una funzione di controllo parentale che inibisce l’accesso al contenuto stesso, salva la possibilità per l’utente di disattivare la predetta funzione tramite la digitazione di uno specifico codice segreto che ne renda possibile la visione;
b) il codice segreto dovrà essere comunicato con modalità riservate, corredato dalle avvertenze in merito alla responsabilità nell’ utilizzo e nella custodia del medesimo, al contraente maggiorenne che stipula il contratto relativo alla fornitura del contenuto o del servizio”.

2. INTERPRETAZIONE DELLA NORMA: I FILM VIETATI AI MINORI DI 14 ANNI.
Poiché il comma 1 espressamente ricomprende nella categoria delle trasmissioni che possono nuocere gravemente allo sviluppo fisico, psichico o morale dei minori o che presentano scene di violenza gratuita o insistita o efferata ovvero pornografiche, “i contenuti di cui al comma 3”, ne consegue che il comma 3 costituisce una specificazione (relativa ai film ai quali sia stato negato il nulla osta per la proiezione o la rappresentazione in pubblico o che siano stati vietati ai minori di anni diciotto nonché dei programmi classificabili a visione per soli adulti) del comma 1, norma generale per i programmi che possono nuocere gravemente allo sviluppo fisico, psichico o morale dei minori o che presentano scene di violenza gratuita o insistita o efferata ovvero pornografiche. Nel comma 3 si individua espressamente (per i film in esso indicati) la fascia oraria di divieto assoluto, compresa tra le ore 7 e le ore 23; fuori dei confini di tale fascia il riferimento al comma 1 serve a condizionare la loro trasmissibilità all’adozione di misure tecnologiche tali da escludere l’accesso dei minori a tali programmi. All’interno della fascia oraria indicata dal comma 3 la programmazione appare, quindi, vietata senza nessuna deroga.
Allo stesso modo il comma 4 contiene una espressa disciplina limitativa per i film vietati ai minori di quattordici anni, indicando l’orario in cui vige il divieto di trasmissione; tali film sembrano rientrare, per criterio residuale data la loro attenuata lesività, nella categoria generale dei programmi nocivi (e non gravemente nocivi) di cui al comma 2 e, pertanto, la disposizione del comma 4 deve essere interpretata coordinandola proprio con il comma 2, che ammette la trasmissione di tali programmi anche fuori dalla fascia oraria consentita quando qualsiasi accorgimento tecnico unitamente all’avvertenza acustica o alla identificazione all’inizio e nel corso della trasmissione mediante la presenza di un simbolo visivo, che deve accompagnare la messa in onda sia in chiaro che a pagamento dei contenuti potenzialmente pregiudizievoli per lo sviluppo fisico, psichico e morale dei minoriescluda che i minorenni che si trovano nell'area di diffusione assistano normalmente a tali programmi (“…a meno che la scelta dell'ora di trasmissione o qualsiasi altro accorgimento tecnico escludano che i minorenni che si trovano nell'area di diffusione assistano normalmente a tali programmi;”); fuori dalla detta fascia oraria appare quindi applicabile, per i film vietati ai minori di quattordici anni, la norma del comma 2 nella sua interezza (ivi compreso il periodo finale: “qualora tali programmi siano trasmessi, sia in chiaro che a pagamento, essi devono essere preceduti da un’avvertenza acustica ovvero devono essere identificati, all’inizio e nel corso della trasmissione, mediante la presenza di un simbolo visivo”).
Alla luce di quanto previsto dalla normativa, si può ritenere che l’offerta di contenuti che possono nuocere allo sviluppo fisico, mentale o morale dei minorenni di cui al comma 2 (fra i quali vanno ricompresi i film vietati ai minori di quattordici anni) sia condizionata dall'ora di trasmissione o in alternativa dall’adozione delle misure che assicurano effettivamente l’esclusione dell’accesso a bambini e adolescenti.
Pertanto, non appare violativa del detto combinato disposto normativo la trasmissione di un film vietato ai minori di quattordici anni nella fascia oraria di televisione per tutti, con utilizzo del parental control, purché questo assicuri in maniera effettiva e concreta l’esclusione dell’accesso a bambini e adolescenti.
Diversamente, laddove non siano adottate le misure che assicurino l’esclusione dell’accesso a bambini e adolescenti unitamente all’avvertenza o alla segnaletica, il film vietato ai minori di anni 14 non potrà essere trasmesso fuori della fascia oraria consentita dal comma 4.

3. INTERPRETAZIONE DELLA NORMA: I FILM VIETATI AI MINORI DI 18 ANNI.
Relativamente alla trasmissione di film vietati ai minori di anni 18, l'adozione del parental control in accesso condizionato, realizzato secondo quanto previsto dal regolamento di cui all’articolo 34, comma 11, del Testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici approvato con delibera n 220/11/CSP del 22 luglio 2011, abbinata alla messa in onda dopo le ore 23.00 e fino alle ore 7.00, soddisfa i requisiti richiesti dalla legge per la trasmissione di film vietati ai minori di anni 18.

lunedì 5 dicembre 2011

CORTE DI GIUSTIZIA UE: Italia condannata per limitata responsabilità civile dei magistrati

Dal 2006 (con la famosa sentenza c.d. 'Traghetti del Mediterraneo', C-173/03), una seconda sentenza (C-379/10) ha condannato, il 24 novembre u.s., l'Italia per la mancanza di responsabilità civile dei magistrati nei casi previsti dalle fonti europee.
Di sèguito ampli stralci dalle motivazioni:

[...]
"30      Si deve rilevare che, al di fuori dei casi di dolo e di diniego di giustizia, l’art. 2, primo comma, della legge n. 117/88 prevede che la responsabilità dello Stato italiano per violazione del diritto dell’Unione può sorgere qualora un magistrato abbia commesso «colpa grave» nell’esercizio delle proprie funzioni. Quest’ultima nozione viene definita nel successivo terzo comma, lett. a), quale «grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile». Ai sensi del secondo comma del medesimo articolo, nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l’interpretazione di norme di diritto né la valutazione dei fatti e delle prove. 
31      In primo luogo, la Commissione contesta alla Repubblica italiana di escludere, per effetto dell’art. 2, secondo comma, della legge n. 117/88, qualsiasi responsabilità dello Stato italiano per i danni causati a singoli derivanti da una violazione del diritto dell’Unione compiuta da uno dei suoi organi giurisdizionali di ultimo grado, qualora tale violazione derivi dall’interpretazione di norme di diritto o dalla valutazione dei fatti e delle prove effettuate dal giudice medesimo.
32      A sostegno di tale primo addebito la Commissione deduce che tale disposizione costituisce una clausola di esclusione di responsabilità autonoma rispetto al disposto di cui ai commi 1 e 3 del medesimo art. 2.
33      Si deve ricordare, a tal riguardo, che, ai sensi dell’art. 2 della legge n. 117/88, la normativa italiana in materia di responsabilità dello Stato per i danni causati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie prevede, da un lato, ai commi 1 e 3 di tale articolo, che tale responsabilità è limitata ai casi di dolo, di colpa grave e di diniego di giustizia, e, dall’altro, al secondo comma dell’articolo stesso, che «non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove». Dall’esplicito tenore di quest’ultima disposizione emerge che tale responsabilità resta esclusa, in via generale, nell’ambito dell’interpretazione del diritto e della valutazione dei fatti e delle prove. 
[…]
35      Orbene, ai punti 33-40 di tale sentenza [Traghetti del Mediterraneo, n.d.r.], la Corte ha affermato che il diritto dell’Unione osta ad una legislazione nazionale che escluda, in maniera generale, la responsabilità dello Stato membro per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto dell’Unione imputabile a un organo giurisdizionale di ultimo grado per il motivo che la violazione controversa risulti da un’interpretazione delle norme giuridiche o da una valutazione dei fatti e delle prove operate da tale organo giurisdizionale.
[...]
37            […] lo Stato membro convenuto non ha fornito alcun elemento in grado di dimostrare validamente che, nell’ipotesi di violazione del diritto dell’Unione da parte di uno dei propri organi giurisdizionali di ultimo grado, tale disposizione venga interpretata dalla giurisprudenza quale semplice limite posto alla sua responsabilità qualora la violazione risulti dall’interpretazione delle norme di diritto o dalla valutazione dei fatti e delle prove effettuate dall’organo giurisdizionale medesimo, e non quale esclusione di responsabilità.
[...]
39      In secondo luogo, la Commissione contesta alla Repubblica italiana di limitare, in casi diversi dall’interpretazione delle norme di diritto o dalla valutazione di fatti e di prove, la possibilità di invocare la responsabilità dello Stato italiano per violazione del diritto dell’Unione da parte di uno dei propri organi giurisdizionali di ultimo grado ai soli casi di dolo o di colpa grave, il che non sarebbe conforme ai principi elaborati dalla giurisprudenza della Corte. A tal riguardo, la Commissione sostiene, segnatamente, che la nozione di «colpa grave», di cui all’art. 2, commi 1 e 3, della legge n. 117/88, viene interpretata dalla suprema Corte di cassazione in termini coincidenti con il «carattere manifestamente aberrante dell’interpretazione» effettuata dal magistrato e non con la nozione di «violazione manifesta del diritto vigente» postulata dalla Corte ai fini del sorgere della responsabilità dello Stato per violazione del diritto dell’Unione.
[...]
41      La responsabilità dello Stato per i danni causati dalla decisione di un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado che violi una norma di diritto dell’Unione è disciplinata dalle stesse condizioni, ove la Corte ha tuttavia precisato che, in tale contesto, la seconda di dette condizioni dev’essere intesa nel senso che consenta di invocare la responsabilità dello Stato solamente nel caso eccezionale in cui il giudice abbia violato in maniera manifesta il diritto vigente (v. sentenza Köbler, cit., punti 52 e 53). 
42      Dalla giurisprudenza della Corte emerge, inoltre, che, se è pur vero che non si può escludere che il diritto nazionale precisi i criteri relativi alla natura o al grado di una violazione, criteri da soddisfare affinché possa sorgere la responsabilità dello Stato in un’ipotesi di tal genere, tali criteri non possono, in nessun caso, imporre requisiti più rigorosi di quelli derivanti dalla condizione di una manifesta violazione del diritto vigente (v. sentenza Traghetti del Mediterraneo, cit., punto 44 nonché la giurisprudenza ivi citata).
43      Nella specie, si deve rilevare che la Commissione ha fornito, alla luce, segnatamente, degli argomenti riassunti supra al punto 16, elementi sufficienti da cui emerge che la condizione della «colpa grave», di cui all’art. 2, commi 1 e 3, della legge n. 117/88, che deve sussistere affinché possa sorgere la responsabilità dello Stato italiano, viene interpretata dalla suprema Corte di cassazione in termini tali che finisce per imporre requisiti più rigorosi di quelli derivanti dalla condizione di «violazione manifesta del diritto vigente».
[...]
48      Conseguentemente si deve dichiarare che:
–        escludendo qualsiasi responsabilità dello Stato italiano per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto dell’Unione imputabile a un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado, qualora tale violazione risulti da interpretazione di norme di diritto o di valutazione di fatti e prove effettuate dall’organo giurisdizionale medesimo, e
–        limitando tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave, ai sensi dell’art. 2, commi 1 e 2, della legge n. 117/88,
la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza del principio generale di responsabilità degli Stati membri per violazione del diritto dell’Unione da parte di uno dei propri organi giurisdizionali di ultimo grado.
[...] 
Per questi motivi, la Corte (Terza Sezione) dichiara e statuisce:
1)      La Repubblica italiana, 
–        escludendo qualsiasi responsabilità dello Stato italiano per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto dell’Unione imputabile a un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado, qualora tale violazione risulti da interpretazione di norme di diritto o da valutazione di fatti e prove effettuate dall’organo giurisdizionale medesimo, e 
–        limitando tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave, ai sensi dell’art. 2, commi 1 e 2, della legge 13 aprile 1988, n. 117, sul risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e sulla responsabilità civile dei magistrati, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza del principio generale di responsabilità degli Stati membri per violazione del diritto dell’Unione da parte di uno dei propri organi giurisdizionali di ultimo grado. 
2)      La Repubblica italiana è condannata alle spese."